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L’errore rende liberi: centenario della nascita di Gianni Rodari (23 ottobre 1920), di Elsa Baldinu
23/10/2020, 11:41 | Arte e Cultura
Semafori blu, topi mangia-gatti, uomini di burro: sono soltanto alcuni dei bislacchi personaggi che affollano l’universo di carta rodariano, presieduto dal sovrano errore. Sì, perché l’errore, rivalutato dal noto scrittore di Omegna, è il cammino preferenziale per la libertà.
L’errore è devianza per definizione, un percorso che, una volta imboccato, allontana dalla retta via: lo diceva il Sommo, nella sua Commedia. Eppure ha ben poco a che spartire con lo sbaglio. Quest’ultimo condivide l’etimo con l’abbaglio, un intoppo che costringe allo stallo; il primo, al contrario, esprime l’idea del viaggio, un iter che semina la verità per poi ricongiungersi a essa, da una prospettiva altra, arricchita. Le scoperte migliori sono frutto di un errore: Colombo insegna.
“Da un lapsus può nascere una storia”, afferma Gianni Rodari nella Grammatica della fantasia, opera del 1970 - anno in cui riceve il prestigioso premio Andersen. Qui teorizza l’errore creativo, fulcro di un’estesa produzione letteraria: Il libro degli errori (1964) ne costituisce una pagina esemplare. L’errore è una felice scappatoia dalla banalità del reale, l’occasione per evadere da una consuetudine stantia e rivalutarla con coscienza critica. È “La strada che non andava in nessun posto” (Favole al telefono, 1962), un sentiero inesplorato che si rivela promettente per chi, come Martino Testadura, ha una volontà dubitante, che va oltre il sentire comune. L’errore dimostra che la realtà è una, ma le possibilità sono infinite, e non ci si può accontentare senza approfondire, né arrendersi senza lottare. Si veda la storia de “Il giovane gambero” (Favole al telefono, 1962) che vuole imparare a camminare in avanti, a dispetto della sua stessa natura.
Come giornalista, Rodari riporta le cose quali sono, come scrittore, le deforma: l’errore genera riso, riflessione, talvolta indignazione. Ecco che ne “Il Paese senza punta” (Favole al telefono, 1962) si presenta un luogo ingentilito nelle forme: il conflitto diviene un’idea inconcepibile per chiunque vi approdi.
L’errore inverte i contenuti, come accade ne “Le favole a rovescio” (Filastrocche in cielo e in terra, 1960), dove gli eroi si rivelano esseri spregevoli, e i cattivi si riscattano da una fama millenaria: “C’era una volta/ un povero lupacchiotto,/ che portava alla nonna/ la cena in un fagotto”. Più spesso è la forma il bersaglio da atterrare: “Il museo degli errori”, “L’ago di Garda” e “Il serpente bidone” sono tre delle innumerevoli filastrocche dedicate al refuso grammaticale. Le regole vanno comprese, poi rispettate, guai ad accettarle passivamente.
Da partigiano, Rodari vive sulla propria pelle l’età dei totalitarismi, in cui la parola è strumento al servizio di un potere cieco, malato, disumano. L’uomo, ancor prima dello scrittore, invita così a riappropriarsi del linguaggio, ne promuove la democrazia. Forte dell’esperienza da maestro, parla la lingua dell’infanzia, cui ha dedicato la vita intera: i bambini sono i primi a credere nell’impossibile, a percepire le ingiustizie, a ribaltare tutto, metterlo in discussione. Gli adulti non si sentano esclusi, che non è mai troppo tardi per il cambiamento: “Il mondo, sono i disobbedienti che lo mandano avanti!” (Grammatica della fantasia, 1970).
L’errore è sana ribellione, l’errore è libertà: “tutti gli usi della parola a tutti […]. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo” (Grammatica della fantasia, 1970).