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L’insostenibile scarto tra sogno e realtà in "Gita al Faro", di Elsa Baldinu

A 80 anni dalla morte di Virginia Woolf (28 marzo 1941)

27/03/2021, 13:23 | Arte e Cultura

James guardò il Faro. Vedeva già gli scogli imbiancati, la torre, nuda e dritta; ne vedeva le strisce bianche e nere, le finestre; riusciva persino a vedere il bucato steso ad asciugare sugli scogli. Era dunque quello il Faro? No, anche l’altro era il Faro. Non c’era nulla che fosse una cosa soltanto.

L’altro Faro, scrive Virginia Woolf mentre dà voce ai pensieri di James, il figlio minore dei Ramsay, a cui dieci anni prima è stata promessa una gita per visitarlo e che ora, ormai cresciuto, viaggia su una piccola barca perché il cerchio, finalmente, si chiuda.
L’altro Faro, ma quale? Quello dalla torre argentea, avvolta nella foschia, con il suo magico occhio giallo, che da bambino scrutava dal giardino di casa, in tarda sera? O, meglio, quello che ha plasmato dentro sé, nell’intimità di un sogno infantile, quello che ha cullato per anni e alimentato nell’attesa di poterlo, infine, sfiorare?

 

Gita al faro è un viaggio incompiuto, o più precisamente, compiuto fuori tempo massimo: è il tardivo approdo alla realtà delle cose. Come una Parca che domina il tempo, l’autrice dilata un giorno e comprime un decennio per mostrarci una verità primordiale: l’inevitabile scarto che separa sogno e realtà, l’aspettativa delusa, la scoperta dall’effetto retroattivo che pesca nel passato per ridimensionare un ricordo, spogliarlo del suo incanto.
 

Dunque, com’era il Faro nella mente di James quando aveva soltanto sei anni? Cosa lo rendeva tanto speciale? Prima fra tutti, la distanza nel tempo e nello spazio: il Faro lo attendeva lì, oltre un lembo di mare, oltre una manciata d’ore; lontano come il mondo oltre la siepe, come il dì di festa. A suggellare il tutto, la tenera promessa di sua madre: se domani sarà bello, disse una mattina la signora Ramsay, e James, seduto a ritagliare figurine da un giornale, d’un tratto vide il mondo tingersi di un solo colore, irradiare gioia.

Ecco, invece, ciò che resta del Faro: una spoglia torre e un nudo scoglio. Anche se ‘resta’ non è forse il termine più adatto: perché quel Faro è sempre lo stesso, ignaro delle fantasticherie di James. Quello ‘reale’, fisico, ha oscurato quello ‘immaginato’, immateriale, lo ha spodestato con insensibile arroganza. La realtà vive a prescindere da noi, dalle nostre speranze: sotto le macerie di ogni sogno riposa una cruda evidenza nell’attesa di essere recuperata.
 

Eppure, ormai adolescente, James prova una strana soddisfazione, perché il Faro dei suoi desideri, a vederlo da vicino, non è poi un granché. Ma non sta forse mentendo a se stesso? Non sta forse tendendo la mano a quel bambino felice per proteggerlo dal disinganno?
Ma, in fondo, James sa che non c’è nulla che sia una cosa soltanto: anche l’altro è il Faro, il suo Faro personale. E se non lo trova fuori, a largo, lo troverà dentro sé. E stavolta non servirà una barca, né il bel tempo, per raggiungerlo.

ELSA BALDINU
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