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Tra critica letteraria, romanzi insignificanti e poesia vuota, di Francesco Casula
02/10/2023, 13:27 | Arte e Cultura
La critica letteraria è viepiù ridotta a servire interessi meramente editoriali o comunque del mercato o interessi politici che nulla hanno a che fare con la sua funzione. E non c’è da meravigliarsi che siano entrati in crisi anche alcuni dei più importanti premi letterari né che le opere premiate siano spesso così oziose e insignificanti che se ne ricorda a malapena il nome. Anche perché, spesso (molto spesso) ad essere premiato non è l’autore ma la (potente) casa editrice. Spesso, molto spesso i premi sono oggetto di scambi di potere e favoritismi. Così avviene che qualche critico autorevole sconsiglia la lettura di alcuni nomi già celebrati dalla critica e già arrivati in cima alle classifiche.
E non mi si dica che gli autori abbiano dalla loro parte un numero considerevole di lettori. Non si può dimenticare infatti che il surrogato dell’acribia critica è ormai il potere straordinario dei media, con il suo martellante battage pubblicitario, quando non si valga della presenza stessa degli autori, autoreferenziali e presenzialisti quant’altri mai. Insomma gli autori sono ormai i più appassionati lettori di se stessi, i più strenui difensori della loro opera. Ma sic stantibus (così stando le cose) non c’è verifica, non c’è critica.
C’è di più. La scrittura letteraria sta sempre più diventando l’altra faccia dell’imperante consumismo tout court. Anzi: un suo prodotto. Rassicurante. A la page. Con libri spesso inutili. Vuoti. Dalla forma, spesso addirittura trasandata. Che utilizza una lingua farcita di molti vieti clichés, di stilemi insignificanti, di una corposa e spesso scurrile gergalità, di insopportabili anglicismi. Che vorrebbe essere più composita e più ricca e che invece risulta più povera. Forse non è ancora una lingua di plastica, ma è certo avviata a diventarlo in questo malfatato tempo in cui le difficoltà della scrittura riflettono le difficoltà del nostro pensiero e della nostra parola. La plastica, ahinoi è a ridosso anche della parola.
Ciò vale per la prosa e, segnatamente, per il romanzo. Ma vale anche per la poesia contemporanea italiana, diventata soltanto una fucina di varie e vaghe alchimie linguistiche, di funambolismi verbali, di più o meno avventurose esercitazioni formali, senza sostanza e senz’anima, manichini inamidati. Quando non semplici giochi, balbettamenti, ovvietà, vaghezze. Mere onomatopee e parole vuote gridate nel frastuono per mentire e per nascondere invece che per svelare, per testimoniare. Per essere un documento di un’epoca. O, meglio, per porsi come documento dello spirito.
Ugualmente preoccupante è il contenuto di molta scrittura odierna teso a inseguire e lisciare il pelo del lettore conformista e, talvolta, analfabeta. O dello stesso potere.
Quando invece la letteratura e la scrittura in genere – ad iniziare da quella giornalistica – dovrebbe essere “fastidiosa”, “sovversiva”, tesa a seppellire cesare e i cesari e non a celebrarli e magnificarli: tesa ad accompagnarsi “con los pobres de la tierra/Quiero yo mi suerte echar” (con i poveri della terra/ voglio gettare la mia sorte).*
*da Guantanamera di José Martin