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Educare alla “bella lingua” è promuovere la cultura del pensare, di Pierfranco Bruni
La Lingua è un bene culturale immateriale tra formazione e innovazione
05/02/2018, 14:05 | AttualitàLa lingua è un bene culturale. Non si può prescindere da questo dato. Bene immateriale che comunica con i beni materiali. Gli obiettivi della Giornata della Lingua sono proprio quelli di educare ad una estetica della conoscenza e della promozione dei linguaggi attraverso, lo aggiungo io, gli scrittori e i poeti della bella lingua. I beni culturali costituiscono sempre più un riferimento non solo identitario ma una “piattaforma” per educare alla cultura delle civiltà e degli incontri tra popoli. Dall’archeologia all’arte contemporanea, dai monumenti alle demoetnoantropologie. Credo che proprio intorno alla “questione” demoetnoantropologica si gioca quella trasparenza pedagogica il cui rapporto con il mondo della scuola diventa un riferimento certo.
I cosiddetti Mediterranei inclusivi non sono soltanto una geo politica della storia, ma sono una geo metafisica dei linguaggi in cui il dato letterario diventa una finestra aperta sul mondo delle antropologie comparate e dei linguaggi finalizzati. Scuola e beni culturali rappresentano una pedagogia di un apprendimento ben definito all’interno dei processi non solo etnici ma soprattutto conoscitivi. La conoscenza diventa valorizzazione nel momento in cui i due elementi prioritari diventa modelli. Questi due elementi sono il sapere, come conoscenza e saggezza e come archeologia dei sentimenti di un popolo e metafisica dell’identità, e la prospettiva di una metodologia educativa volta ai codici dell’appartenenza. Il bene culturale radica ad una appartenenza. La scuola sviluppa, in una ermeneutica pedagogica, il quadro delle appartenenze grazie ad un immaginario storico che deve diventare processo culturale permanente. I beni culturali sono sostanzialmente uno scavo in quella pedagogia che è educazione permanente ai valori della civiltà e dell’integrazione e alterità dei popoli. In un tale discorso soltanto il principio delle dimensioni demoetnoantropologiche possono dare una visione complessiva dell’ascolto.
I popoli si ascoltano in un immaginario individuale e non collettivo. Il cambio di un registro critico è proprio questo: dalla visione oggettuale e collettiva di un processo storico bisogna passare ad uno scavo soggettivo e individuale delle culture. Non siamo più ad una antropologia della prassi. Ma siamo ad una antropologia dell’umanesimo. Il bene culturale nella scuola è il segno non problematico ma distintivo di un approccio ad una antropologie delle vite, dei popoli e delle lingue. Ecco perché soffermarsi sulla potenza del concetto etnico permette di scavare nella soggettività dei popoli. Noi non siamo prassi. Siamo tradizione. Il legame tra l’Albania e l’Italia è una “evocazione” di tradizioni. L’Albania è l’Adriatico che entra nel Mediterraneo.
L’Italia è il Mediterranio che accoglie le linee degli Orienti e dell’Orizzonte greco – balcanico – asiatico. Il Mediterraneo italiano è il nord dell’Africa e il centro dell’Africa e intorno a questo scorcio di mare si identificano non solo i tracciati mitico – simbolici archeologici ma anche quelli medioevali e, in tempi più moderni, quelli richiamati nel Regno di Napoli. Il Regno di Napoli è stato il Mediterraneo inclusivo perché all’interno della geo metafisica della Magna Grecia si sono inseriti gli Orienti grazie ad un intreccio di contaminazioni dalle quali è possibile una partecipazione ai saperi delle etnie.
Le lingue nelle interpretazioni demoetnoantropologiche sono la garanzia di un processo strategico e congiuntivo tra la tradizione popolare e la lingua. I linguaggi sono suoni, parole, canti. Ma sono anche musica, danza, sorriso e partecipazione di un dare e avere contributi proprio riferiti a ciò che ho sempre definito antropologia dell’umanesimo dei Mediterranei.
I luoghi, i territori dell’anima, le espressioni immateriali delle civiltà, i popoli che si raccontano e recitano destini, la magia tra i mari e i deserti, il canto dentro una cultura che è identità popolare: sono viaggi tra la storia e la consapevolezza delle eredità. Ovvero dentro le appartenenze che si manifestano nasce una visione della cultura come dimensione antropologica. L’antropologia è il vissuto che supera ogni forma di indicazione storica per restare segno ancestrale in cui ciò che consideriamo macerie e rovine si trasforma in memoria. Ma un percorso del genere è attraversare, con saggezza, la pedagogia dell’anima.
L’antropologia è l’espressione delle forme etniche e demo – etniche in cui la centralità dell’uomo resta fondamentale. L’uomo e le sue identità costituiscono il dato centrale per leggere e interpretare modelli di cultura e di civiltà che sono stati attraversati dal tempo. Un tempo che si è fatto memoria. Non si può più parlare di passato come un qualcosa di distaccato, di distante, di lontananza. Il passato è già un concetto che indica ciò che non c’è più e non è più ricontestualizzabile. La memoria è il perdurare del tempo grazie alle manifestazioni immateriali delle culture.
Le culture si rivivono grazie alla possibilità del ricordare. Il ricordare è un dato immateriale come anche il passato e la memoria. Ma è immateriale il tempo che si geografizza nello spazio e quindi nelle epoche che vivono nei luoghi. L’antropologia con le sue radici demo – etno recupera il tempo nelle epoche e insieme all’uomo fa parlare le epoche stesse. Si tratta più che di un passato di un vissuto.
La demo-etno-antropologia è lo spazio di un vissuto. Ecco perché resta fondamentale sia come elemento scientifico sia come processo pedagogico e naturalmente didattico. Ora, in un tempo sradicante come quello che viviamo e in una società costantemente in transizione fissare lo spazio di un vissuto significa decodificare tutto ciò che è stato in ciò che ci permette di comprende e di interpretare le società dentro le culture.
Non si riavvolge il nastro del tempo. Si “ragiona” intorno, appunto, al ricordare che diventa un religioso rimembrare tra i linguaggi, le tradizioni e i costumi. Non si ricostruisce la “materialità” di un’epoca pur vivendola in una struttura o sovrastruttura storica. Si ricostruisce una metafisica del tempo e, quindi, la memoria stessa diventa ontologia di un tempo dilatato tra il presente che cerca di non assentarsi e la memoria che si stabilizza in una ontologia dell’esistente. Perché si parla di cultura popolare? È un termine molto a rischio e molto abusato. Si deve parlare di cultura della memoria.
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Bisogna fare in modo, anche sul piano semantico, di superare il termine di “popolare” e far entrare nel vocabolario antropologico il concetto forte di cultura della memoria, che non è la stessa cosa. Ciò che non è popolare non rientra nella visione di una antropologia della cultura? Direi che è necessario insistere sul valore di cultura della memoria. La memoria è una dimensione molto ampia dentro il cui concetto vivono i luoghi e il sapere, il percorso onirico e il reale, la metafora e l’allegoria.
I popoli e le civiltà non si depositano nel “popolare” ma nella memoria che assume il senso di una spiritualità della tradizione. La tradizione è il fulcro intorno al quale ruota la metafisica della memoria e del ricordare. Tutto ciò che è stato si trasforma in memoria e la memoria è inscindibile dal tempo. Ogni vissuto diventa ontologia dell’essere e dell’esistente.
In virtù di ciò si recupera in quanto la memoria delle civiltà è memoria culturale e, quindi, esercita la sua funzione come bene culturale. La demoetnoantropologia come bene della cultura, ovvero come patrimonio di identità culturali. Uno spessore umano che richiede una capacità pedagogica. Perché soltanto nella possibilità di trasmettere un processo culturale che possa diventare processo educativo è possibile dare un senso di valore alle antropologie.
L’antropologia come bene di una eredità culturale ma anche come valenza pedagogica in termini di tessuto educativo. Si educa alla memoria non solo nella conoscenza delle storie ma anche nella consapevolezza della tradizione. L’antropologia è tradizione ma è anche messaggio pedagogico.
Educare alla conoscenza di ciò che la memoria rappresenta è educare costantemente a pensa ad una cultura della tradizione oltre la materialità. Il punto è proprio qui. I beni culturali immateriali sono, in fondo, una ontologia del pensiero che ha un vissuto da tramandare.
Bisogna conoscere per educare. Per educare alla storia bisogna recuperare il pensiero delle civiltà, il vissuto delle civiltà, la metafisica delle società. Un compito interessante potrebbe svolgerlo il mondo della scuola attuando una pedagogia dell’innovazione nella consapevolezza della tradizione delle civiltà.
Un ruolo antropologico vero e proprio. Una scuola innovante non può fare a meno di usare i linguaggi delle antropologie, ovvero dei beni culturali come metafisica di un pensiero mai unico. Una antropologia della metafisica, in sostanza, è il vero orizzonte che permette di superare la storia e di focalizzare le culture nella metafisica della memoria. Tale metafisica è una pedagogia dell’anima per le civiltà e le eredità dei popoli. La lingua diventa linguaggio nel momento in cui la tradizione della parola assume la valenza di una tradizione metafisica che si tramanda nonostante il cangiare dei tempi. Quindi la lingua resta un bene culturale tra formazione e c ostante innivazione.