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Il Natale sardo, di Nunzio Isoni

23/12/2021, 19:30 | Attualità

Il natale dei bambini sardi – nel periodo compreso fra l’arrivo della televisione e il boom economico, che ha modificato usi e costumi locali, regionali, nazionali -, era il momento più atteso dell’anno. Negli ovili nascevano gli agnellini, una gioia tra le più sacre per gli occhi di pastori e bambini vederli rincorrersi, incornarsi, inseguirsi, saltare al pascolo nei prati, perduti in giochi e lotte infinite. L’aria e il cielo brillavano di stelle e l’aria profumava di pulito. A sera il carbone crepitava nei bracieri accesi e mille scintille sprizzava in cielo a illuminare le tenebre come le stelline nella notte blu scura dei presepi. Il latte aveva il sapore e la densità del colostro. Appena fuori paese i campi odoravano di cardo selvatico e carciofi, e qualche arbusto di mirto in ritardo ultimava di portare a maturazione le bacche bianche e nere ancora acerbe dopo santa Lucia. Nei cortili s’ammazzava il maiale: agli odori naturali s’aggiungeva l’odore tipico di usciadrìnu (bruciaticcio delle setole) del corpo ripulito con una fiamma leggera, e del sangue ancora liquido raccolto, lavorato e trasformato dalle donne in sambenazu (sanguinacci), insaccato con anice e zucchero. A tale profumo si univa l’odore (s’arrastu) degli aromi impastati con la carne insaccata nelle salsicce e il profumo dei camini accesi portato in volute azzurrognole dal vento in tutte le vie e da esse al cielo.
 

In ogni paese ritornavano come rondini al nido, gli emigrati.
  Dalle miniere belghe teatro del disastro datato 1956 in cui morirono 266 minatori; dai cantieri edili di Francia, Svizzera, dall’Olanda, dalle fonderie tedesche, da Wolfsburg, capitale delle fabbriche di automobili della Wolkswagen; dall’America, dal Canada, da opifici e officine delle città industriali del continente quali Milano e Torino, gli emigrati affrontavano viaggi interminabili in treni affollati e attraversavano il mare in tempesta per trascorrere il natale nella casa natia in compagnia dei propri cari. In valigia, chi tornava e non aveva impedimenti di sorta, portava cioccolato, sigarette, sigari, accendini da salotto a forma di automobili e navigli, penne stilografiche, oggetti vari da regalare ad amici e parenti.

 

  Grazie al pretesto di provare le canzoni di natale, ragazzi e ragazze riuniti intorno al vecchio armonio a pedali formavano il piccolo coro parrocchiano: e i giovani innamorati avevano un’occasione in più di vedersi a sera garantiti dalla sacralità della chiesa.
  Unitamente agli emigrati ritornavano in licenza militari di leva, sottufficiali professionisti arruolati nei vari corpi armati dello Stato e agenti di custodia. Nessuno, se non per motivi comprovati, saltava l’appuntamento natalizio.  
  Il natale non prevedeva l’albero sotto il quale deporre regali. Caduti a novembre gli ultimi melograni i cortili si riempivano di nuova luce: tra le foglie verdi brillavano le arance. L’arancio sostituiva il rosso verde del melograno: e sebbene i frutti non fossero palline dorate, i rami non avessero filamenti di neve intrecciati né statuine, soldi rivestiti di carta dorata ripieni di cioccolato né stelle filanti colorate, candele lune e piccoli babbi natale di stoffa penzoloni, le arance pendule illuminavano l’aria e in tutto il cortile risplendeva l’atmosfera natalizia. Se l’albero non era ancora entrato nelle case dei poveri (costava più o meno come il presepio di moda fra le famiglie agiate) alla povera gente restava il presepio collettivo fatto in chiesa per tutti. Ogni anno subito dopo il portone d’ingresso, tra l’acquasantiera, la porta delle scale da cui si può salire al campanile, nell’angolo destro della chiesa riservato e destinato ogni anno ad ospitare il presepe, sorgeva il piccolo cantiere.

 

  Prima prendeva forma il ripiano di legno, la base sopra la quale costruirlo: e poi si reperiva l’occorrente. Nelle giornate di dicembre, tra le più corte e fredde dell’anno, il sole se la filava via veloce e scompariva presto oltre ai monti, quasi si prendesse anche lui come uno scolaretto le vacanze natalizie. Nelle poche ore di luce i ragazzi autorizzati da mamme e papà battevano la campagna circostante. Frugavano fra le rocce umide esposte a tramontana dei sas rundas (groppe, selle montuose erette a est a barriera del paese), alla ricerca di materiali da impiegare nella costruzione del presepe. A parte le statuine di gesso, la carta colorata che sostituiva il cielo stellato, il resto prove-niva dai campi. I ragazzi uscivano al mattino e tornavano quand’era buio. Stanchi, sporchi, affamati, carichi di muschio (lanerocca), li-cheni (evaepedra) asparago selvatico (ipparau), pungitopo spinoso (sorighina), depositavano in chiesa il raccolto e andavano a cena stanchi e appagati. Il tempo di rifocillarsi, scaldarsi e correvano a stendere il muschio sul fondo del presepe. Sopra vi collocavano tre mucche, sempre tre, le stesse, un gregge di pecore, che tutti gli anni perdeva qualche capo, un giogo di buoi, un asino, sei galline, tre cavalli, due cani, quattro capre, un gallo e una volpe; e tre pastori, due contadini, un massaio, signori e pellegrini. Dai campi in una sorta di fila indiana dirigevano alla grotta verso la quale viaggiavano i cammelli carichi di doni al seguito dei Re Magi, diretti nel punto in cui s’era posata la cometa. Una striscia di sassolini bianchi tracciava i sentieri, delimitava il bordo dello stagno (un coccio di specchio) in cui pascevano un paio d’oche e una papera. 
  L’asparago selvatico copriva il tetto alla struttura semplicissima della capanna a forma di ovile stalla; il pungitopo ornava il piano di muschio, abbelliva il paesaggio, accendeva il fondo verde delle sue bacche rosse; la paglia fungeva da pavimento, riempiva la greppia e la mangiatoia nella quale dormiva il bambinello.

  Il presepe rendeva più vivido il natale e abbelliva la piccola chiesa, di per se povera e spoglia.
  La notte della vigilia quasi tutto il paese vestito a festa si recava a “missa e puddu”; tradotto alla lettera: messa del gallo, chiamata così perché celebrata, se non all’ora in cui il gallo saluta il nuovo giorno, intorno alla mezzanotte. Era questa missa e puddu la funzione reli-giosa più attesa e seguita dell’anno. Quella notte la chiesa si trasfor-mava, diveniva davvero la casa comune delle novecento anime che popolavano il borgo. A poco a poco il tempio si riempiva di uomini e donne di tutte le età. Pure atei convinti e comunisti attivi e impegnati partecipavano a missa e puddu la notte di natale. Chi poteva sfoggiava il nuovo cappotto, il maglione alla dolce vita appena comprato; gli emigrati esibivano il benessere raggiunto grazie al lavoro conquistato all’estero, infilando una banconota nella borsa del questuante, aggiustandosi spesso la cravatta, la sciarpa, i guanti, i calzoni di lana, il berretto di feltro. Nel tempio risuonavano canti e preghiere natalizie: il tepore dei fiati esalato attraverso il canto, sommato al calore corporeo dei convenuti, scaldavano l’ambiente e creavano l’atmosfera ideale alla solenne occasione, non meno degli sbuffi d’incenso dal profumo inebriante saliti dal turibolo. Si respirava odore di sacro e di umano allo stesso tempo, odore di belli e brutti, ricchi e poveri, odore di libertà, uguaglianza e fratellanza, odore di noi tutti. E si stava lì in piedi con la certezza che a raccogliere la comunità non era e non poteva essere soltanto la forza dell’abitudine, la tradizione. Nel modo più assoluto. Un vincolo di solidarietà, un sentimento di appartenenza alla collettività più profondo legato a usi e costumi noti e accettati univa i presenti e pervadeva il cuore e l’animo di tutti. Esserci fisicamente e con lo spirito, intingere le dita nell’acqua e segnarsi, cantare, pregare, incrociare lo sguardo del vicino e aspettare la nascita del bambino secondo riti antichi consolidati e condivisi, non aveva sapore d’imposizione né gusto di imbroglio e di forzature. La presenza in chiesa non elevava al di sopra degli altri il credente e non sminuiva affatto la figura del non credente: tutti indistintamente quella notte si sentivano uniti, sapevano d’essere alberi per quanto vecchi e induriti esattamente come i giovani virgulti nati e cresciuti dallo stesso ceppo e attaccati sempre alle medesime radici.


  Dopo la messa mamme papà figlie infreddolite di tutte le età rinca-savano. Alle ragazze non era consentito bere vino e uscire neppure la notte di natale. A loro era permesso scambiare discretamente gli auguri e fare le chiacchiere di rito con famiglie di conoscenti, mangiare una tericca (dolce ripieno di vin cotto), un papassino (dolce tipico fatto per i santi), un cioccolato avuto dal parente emigrato, il biscotto fatto in casa offerto dalla madre alla comare, al vicino di casa; dopo di che andavano a dormire. Per i giovanotti le cose andavano diversamente. Riuniti in greffe (gruppi), trovata una casa del forno libera facevano “rebottada”: cioè la cena a base di, quando c’erano, maialetto, agnello, capretto al forno, cardi, carciofi, finocchi, sedani, verdure crude. Questo tradizionale, non prorogabile festino - a metà fra baccanale e grande abbuffata -, si pianificava in genere tempo prima: gli amici partecipanti versavano una quota di denaro all’incaricato: lui faceva spesa e la notte della cena tutti portavano da casa propria ciò che potevano: salsicce, formaggi, verdure, pane, dolci, noci, vino, castagne, quello che avevano. Mangiavano con buon appetito, bevevano fiumi di vini novelli e cantavano fino al giorno seguente: quando rincasavano era giorno fatto. Comunque andassero le cose, una volta l’anno i reduci del festino erano autorizzati a dormire e potevano trascorrere tutto il giorno di natale a letto. Ma erano pochi i ragazzi disposti a saltare il tradizionale, ricco pranzo natalizio con tutta la famiglia riunita. E sul fare di mezzogiorno si era già tutti in piedi.

  Più o meno come quello della festa patronale, il pranzo natalizio era ricco, in un certo senso unico. E dopo un anno a mangiare secondo un regime alimentare da ospedale o da convento, che proponeva tutti i giorni pane, cipolla, pane e olive, pane e pomodori, pane e formaggio, pane e salsicce, pane e zuppe di verdura, pane pasta patate, pane e brodo di dadi, pane e fave (a novembre), inframmezzate da pane e pasta e ceci, pane pasta e fagioli; sebbene il pane fosse buonissimo e di vari tipi, pane fine (spianata), pane russu (grosso), pane carasau (carta da musica), covazza (focaccia) e cozzulu e s’ou (pane decorativo, con l’uovo incastonato, e si faceva a pasqua), nessuno rinunciava ai ravioli ripieni di ricotta spinaci spruzzati di noce moscata, conditi con sugo di pomodoro e ghisàdu di agnello e pecorino; e pochi davvero rinunciavano al secondo piatto, agnello cotto al forno sopra uno strato compatto (letto lo chiamano i grandi chef) abbondante di rami e foglie di mirto, accompagnato a sedani, ravanelli, carciofi, cardi, olive, finocchi crudi e vini novelli. Per finire comparivano noci, castagne secche, noccioline, dolci fatti in casa, non essendo ancora sbarcato nei porti isolani e di lì avviato alle pasticcerie cittadine, nei paesi, in tutte le tavole e agli ovili (prenderà il traghetto molto presto e vi giungerà con televisioni radio lavatrici automobili e frigoriferi unitamente a nuovi colonizzatori turisti, negli anni di benessere seguiti al boom economico), il panettone milanese.

NUNZIO ISONI
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