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Il "Battista" di Anna Santoliquido: un canto in prosa d’amore e di pace, di Marina Cordella

04/08/2022, 11:52 | Attualità

Lo scorso maggio, grazie alle edizioni Nemapress, ha visto la luce, in duplice lingua (Italiano ed Inglese, con traduzione di Janet Mary Wing), Il Battista, plaquette teatrale di Anna Santoliquido, scrittrice forenzese di fama internazionale.

La pièce in due atti fu composta nel 1998 e commissionata nello stesso anno da Ettore Catalano, attualmente professore onorario di Letteratura Italiana presso la Facoltà di “Lettere e Filosofia” dell’Università del Salento, autore della Presentazione del testo e curatore della regia, al tempo della messa in scena dello stesso a Mesagne (1999), a conclusione della Cavalcata storica dei Re Magi nel giorno dell’Epifania.
 

Ad ispirare la fatica della Santoliquido, sapiente tessitrice di versi ma non meno convincente nel cimento teatrale, è il profeta precursore di Gesù, Giovanni Battista, ego dimidiatus che oscilla tra la tensione eroica (ed alfieriana) di un servo di Dio che, lottando contro quell’atomo opaco del Male (Giovanni Pascoli, X Agosto, v. 24) che è radicato nella natura umana, sconfigge la morte interiore (“I ciechi vedono: la morte è sconfitta…”), e la fragilità di un uomo in cui può trasfigurarsi mitopoieticamente la crisi d’identità dell’Io novecentesco, che squarcia il velo dell’intima debolezza e confessa, con voce tremula e parole sommesse, la sua inadeguatezza a Gesù, il più puro dei battezzati (“Come posso battezzare chi mi sovrasta! Sono io che ho bisogno di te.”). Seppur prosaico, questo gioiello teatrale, sintetico solo per esigenze di rappresentazione, intreccia poesia e professione di fede, potente suggestione e dirompente vis espressiva, il cui esito è un mistico canto d’amore e di pace, che si leva, nella sua sorprendente attualità, contro la tracotante ferocia e la spietatezza del potere dispotico, di ogni forma di violenza e disumanizzante sopraffazione.
 

La luce lunare rischiara non solo la Scena Prima del Primo Atto, ma l’intera vicenda del più che profeta, come lo appella l’Angelo, del più “grande” tra i “nati da donne” (pag. 18), che, seppur eletto, non indossa mai l’abito dell’arroganza, della hybris, ma si piega al suo destino con la dignitosa accettazione della volontà divina, con la serenità di chi rende giustizia a ciò che è scritto, di chi sa che l’eterno, l’infinito appartengono all’Altissimo, e che a lui non resta che essere, come un poeta, mero testimone del tempo: Ѐ lui che redime i peccati. Sul suo capo si è posata la colomba. Ho udito, visto e testimoniato. Ora che Israele lo conosce, la mia missione è finita (Atto Primo, Scena Terza, pag. 24). La purezza disarmante del Battista, il cui sacrificio, come quello, per l’autrice lucana, di tutti i caduti innocenti della Storia (come i ragazzi e i docenti dell’eccidio di Kragujevac, nel 1941, cui la Nostra dedica l’opus maximum del 2010 Città fucilata), parla al cuore e alla mente (cito Francesca Amendola ed il suo Anima mundi. La scrittura di Anna Santoliquido, 2017), per permetterci di salvarci e continuare la vita, stride con la doppiezza, il deserto interiore, la granitica, allucinata disumanità di Erode, Erodiade e Salomè, vittime, come la shakespeariana Lady Macbeth, di un conflitto lacerante, impossibile da ricomporre; anche negli interventi del Coro, hapax nella letteratura per come è concepito dalla Santoliquido, ovvero in una funzione, oserei dire, metateatrale, traluce, dagli ossimori icastici come la luce lotta con le tenebre (Atto Secondo, Scena Prima, pag. 27), il dissidio, come un fuoco che divampa.

Come Dante nel primo Canto del Paradiso, però, il lettore e lo spettatore rimangono estasiati dalla dolce armonia e dalla luminosità che pervadono le scene, in una foresta baudelairiana di simboli evocativi “al confine tra prosa e visionarietà lirica” (Ettore Catalano), come in un’epiphany eliotiana, rivelatrice della divinità e della resurrezione dal Male. Il chaos è congedato dall’armonia e dall’ordine ripristinati: il corpo si disfa, ma l’anima vola in eterno (pag. 29).
Ricorrendo all’artificio della regressione, l’autrice mantiene il pathos della distanza, “sorvegliando” i suoi personaggi dall’esterno; lo sguardo è lucido, la scaltrezza lessicale magistrale. Come Giovanni Battista, anche la penna si fa profetica, oracolare, mistica: la prosa si fa Poesia. 

MARINA CORDELLA
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