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MARIA ZAMBRANO A 110 ANNI DALLA NASCITA. L'ESILIO E LA METAFISICA DELLA SCRITTURA

29/09/2014, 13:26


Maria Zambrano, nata nel 1904 a Vélez  - Malaga e morta a Madrid, dopo un esilio di 45 anni, nel 1991. sono 110 dieci  dalla sua nascita. Un riferimento oltre il laicismo.  I luoghi di un esistere metaforico, nella Zambrano,  insistono in un intreccio tra l’amore come persuasione e la morte come accettazione in un intreccio, in cui destino e metafisica dell’anima diventano un unico segno di un tempo che resta definito nella storia, ma indecifrabile in una ragione poetica.
Nella Zambrano il viaggio vive dentro il tempo dell’esilio. Ma c’è una dimensione poetica che incontra l’onirico percorso tra il buio della coscienza e la luce della parola.
Nella Zambrano è la speranza che vibra i destini violati della disperazione che entra tra le pieghe del divino.Nella crisi della modernità non può esserci una chiave di lettura se non viene ad essere filtrata dal concetto di destino tra una concezione mitico – simbolica e una deriva che approda allo scoglio senza la conoscenza della possibilità della speranza sognante. Perché è solo la speranza che filtra la luce del sogno. Ma nella civiltà del bosco, nella quale ci troviamo ad essere collocati come temperie storica, bisogna pur rintracciare un chiarore lunare.
Dalla morte – vita recitata tra l’esilio e il tragico bisogna andare oltre e attendere l’aurora. In fondo dove termina il disperante groviglio del sottosuolo tragico comincia l’agonia che condurrà ad un sapere dell’anima tratteggiato in un suo importante saggio (che porta il titolo “Verso il sapere dell’anima”).
Maria Zambrano raccoglie la profezia e la legge, però, sul piano di un tempo che si confronta con la storia perenne e la intavola nel sottile desiderio di un destino di speranza nonostante la sua inquiete visione di amato esilio di scrittrice errante. Ma è dentro il Novecento.
Non si lascia intimorire né della scialba decadenza della leggerezza e tanto meno dal secolo vecchio, perché la Zambrano vive nella pazzia pirandelliana e nella poetica di Machado, perché immediatamente la sua scrittura si impone come ragione storica e come ragione poetica in una estetica che lega e unisce, nelle distanze e nelle vicinanze, Seneca a Garcia Lorca e alla temperie di una agonia qual è quella dell’Europa che strappa la sua geografia sulle eredità mediterranee e sulla scia di una tradizione dei sufi e del senso dell’impeccabile sciamanico.
Solo una personalità come la Zambrano può raccogliere l’identità stoica del barocco, la follia di Don Chisciotte con la “Città di Dio” di Agostino, la fiamma di Cristina Campo con la magia di Elemire Zolla. Una follia che le fa vincere il sentimento di morte, il quale lo interpreta con Unamuno come  sentimento tragico della vita e resta tale proprio per non lasciarsi aggredire dalla “illusione della persuasione” indicata da un poeta filosofo come Michelstaedter.
Per la Zambrano la salvezza è nell’anima. L’anima come atto creativo. E la bellezza resta mediazione.
Un Novecento, dunque, che assorbe il vecchio dell’Ottocento ed ha apparentemente una sua struttura coerente per inventarsi la dinamicità della crisi. Nel tempo che viviamo non dovremmo più parlare di crisi del moderno, ma di sconfitta o di vittoria. Forse siamo in una attesa in cui la pacificazione tra poesia e filosofia diventa un atto dovuto ma ormai scivolato nell’indifferenza.
Maria  Zambrano è nel teatro delle maschere (Picasso) e della solitudine dello spazio (de Chirico). Due tempeste in un secolo non definito e non ancora finito. Ma un secolo, per Maria, è una testamento di fedeltà tra la scrittura e la consapevolezza dell’esilio abitato come unica uscita di sicurezza.

Pierfranco Bruni

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