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VICTOR HUGO, IL 26 FEBBRAIO 1802 NASCEVA IL PADRE DEL ROMANTICISMO FRANCESE
Riflessioni sulla pena di morte: " L’ultimo giorno di un condannato"
26/02/2021, 14:01
La morte non ci riguarda, scrive Lucrezio nel I secolo a. C.; se c’è lei, noi non ci siamo, e viceversa. Possiamo dunque stare tranquilli – assicura il filosofo –, o, meglio ancora, atarassici: essere morti è come non aver mai vissuto, è un ritorno all’oblio pressoché indolore. Ci sono un prima e un dopo, praticamente identici, e l’esistenza non è che una parentesi nel nulla. Godiamone tutti, finché dura.
La dottrina epicurea non fa una piega; eppure, si sa, la realtà è ben più complessa. La morte non è sempre un fatto naturale, e sopraggiunge all’improvviso, attraverso le modalità più disparate: la sofferenza, purtroppo, è la sola, inevitabile costante.
Gli uomini sono tutti condannati a morte con rinvio indefinito, afferma Victor Hugo con pungente ironia, pur consapevole che quel tutti, alla fin fine, ne esclude molti, troppi. Proviamo allora, ad adottare una prospettiva-limite; proviamo, sebbene richieda un estremo sforzo empatico, a calarci nei logori panni di un condannato a morte: è ciò che fa il romanziere francese nel 1829. Gli anni del Terrore sono ormai lontani, eppure la parigina Place de Grève ospita quotidiani spettacoli aberranti: la ghigliottina miete, incontrastata, migliaia di vittime. Con coraggiosa e moderna sensibilità, lo scrittore denuncia un sistema brutale, dietro cui si nasconde, codarda, un’idea distorta di umanità e giustizia.
Cosa accade nella mente e nel corpo di un uomo che riceve l’ultima sentenza? Quali i pensieri, gli umori, le reazioni di un condannato a morte? Reali, questori, magistrati, ecclesiastici, borghesi: tutti distolgono, infastiditi, lo sguardo dal sangue delle teste mozzate, mentre il popolo, incosciente, inneggia alla Madame. Ecco che Hugo scoperchia un vaso che l’ipocrisia del tempo tenta di tenere sigillato.
La condanna a morte è il colmo della schiavitù: dal momento in cui il martello batte sul banco del tribunale, l’imputato si ritrova in un tunnel senza uscita, precipita in un pozzo senza fondo. Il tempo subisce un arresto e, paradossalmente, corre, senza freni, verso il baratro. Con il corpo in cella e la mente prigioniera di un’idea, il detenuto conta, con smania febbrile, i giorni che lo separano dall’esecuzione. Niente può alleviare le sue pene, non i raggi del sole, non una preghiera, neppure il ricordo della famiglia: il bene fa più male del male stesso, perché lo si guarda e lo si pensa per l’ultima volta.
Chi può avanzare diritti sulla vita umana? Quale fredda e impietosa presunzione ne può stabilire il termine? Come si legge in un’antica prefazione, vendicarsi è dell’individuo, punire è di Dio: alla società l’obbligo di rieducare i cittadini, come una madre i figli.
E oggi? A prima vista, i dati appaiono confortanti; tuttavia, se l’abolizionismo va per la maggiore – si pensi alla Virginia, che dice no dopo trecento anni di esecuzioni –, sono invece cinquantotto i Paesi in cui la pena di morte è in vigore, cinquantasei quelli in cui è effettivamente praticata: la morte ci riguarda, eccome.