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"STORIA DI UNA CAPINERA"(1871), A 100 ANNI DALLA MORTE DI GIOVANNI VERGA
31/03/2022, 11:14“Ogni cosa oggi sembra portare in sé la sua contraddizione”, afferma Karl Marx nell’aprile del 1856.
È il grande paradosso del capitalismo: le macchine, nate per supportare l’uomo, lo riducono in schiavitù. Diverse pellicole hanno denunciato l’ambiguità della tecnologia: da Tempi Moderni al futuristico Io, robot - cui, tra l’altro, siamo rovinosamente vicini. Anche il marchingegno più innocuo e promettente apre a prospettive devianti: basti pensare allo smartphone, traguardo storico della comunicazione, pericolosamente alienante. A ben pensarci, la contraddizione è applicabile a qualsiasi fatto di natura.
L’esasperazione può determinare effetti indesiderati: ad esempio, un sovradosaggio di camomilla produce eccitazione. Ma attenzione, tale meccanismo non va letto in termini esclusivamente negativi: si pensi a quanto teorizzato dall’antica filosofia cinese, il cui mondo appare distinto in forze complementari, ciascuna portatrice sana del proprio contrario.
Questa l’ironia della vita, che Storia di una capinera sembra esprimere con metaforica sincerità: scritto in pieno marxismo, il romanzo verghiano in forma epistolare non è soltanto la denuncia di un’insuperata disparità di genere, quanto più il grido di un’umanità intera cui l’autore presta voce con insuperabile ventriloquio. Può una provvisoria prigionia tradursi nella tanto sospirata libertà? Può un padre reprimere la vita di sua figlia con l’originario intento di averne cura? Può l’amore cagionare la morte? Sì, proprio in nome di quella beffarda contraddizione evocata poc’anzi.
Monte Illice, 3 Settembre 1854: siamo alle pendici dell’Etna, quando l’estate cede il posto all’autunno. Complice una dilagante epidemia di colera, la giovane Maria, novizia prossima al voto, torna tra le mura domestiche, nel rigoglio della campagna sicula. Dal quel piccolo angolo di paradiso avvia un’assidua e appassionata corrispondenza con l’amica Marianna: grazie a questo comune espediente, il lettore ha accesso alle più intime riflessioni della protagonista che, giorno dopo giorno, si affeziona a una quotidianità che sa essere provvisoria. Il contatto diretto con la natura e il rapporto affettuoso con la famiglia risplendono nell’ottica della precarietà; allo stesso modo, il primo amore, conosciuto durante la parentesi laica, è vissuto con l’intensità del miraggio. Una volta rientrata l’emergenza, il ritorno al monastero diventa inevitabile e, a dispetto dell’iniziale consapevolezza, Maria accusa la separazione. Dopo aver gustato la libertà, seppur nella forma dell’isolamento, le sembra impensabile regredire alle austere privazioni della clausura.
Ecco che la seconda parte del romanzo ha inizio, definita da una progressiva e rovinosa caduta, il cui fondo coincide con la morte: dopo un’iniziazione di funeree sembianze, segue un lento e agonico declino che tocca il delirio prima e la rassegnazione poi. Così Maria lascia il mondo consumata da un amore mai consumato, mentre sua sorella si prepara a condurre la vita da sposa a lei preclusa; spira mentre rimugina sulla figura paterna, che ha spezzato il suo futuro nel vano tentativo di offrirne uno; muore nell’incapacità di comprendere come Dio abbia circondato l’uomo di meraviglie e questi, con l’insolenza di parlare a suo nome, lo vieti ai suoi simili.
Contraddizioni, dunque, piccole imprescindibili dissonanze cui l’umanità non può sottrarsi ma cui, come natura comanda, tenta invano di armonizzare.