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MARIO POMILIO A 25 ANNI DALLA MORTE TRA LETTERATURA E TRADIZIONE
01/09/2015, 12:19Da Il testimone del 1956 alla Compromissione del 1965, dal libro di saggi Contestazioni del 1967 a Il quinto evangelio. Mario Pomilio è nella linea di una letteratura della tradizione. E prima ancora: L’uccello della cupola che risale al 1954. Tradizione che significa mantenere fede ad una identità di valori cattolici, cristiani, esistenziali. Queste identità sono completamente trasportate sulla pagina.
La letteratura per Pomilio è una continua confessione e, come tutti gli spiriti religiosi, fa della letteratura un diario in cui la realtà non si assopisce o non viene assopita da altri fattori ma viene constantemente superata da una metafisica dell’anima che prende il sopravvento sul resto. La religiosità, in Pomilio, diventa preghiera.
Dai libri citati sopra mancano quello “incompiuto” che uscì nel 1991 con il titolo: Una lapide in via del Babbuino, ma Pomilio lo avrebbe voluto chiamare: Il racconto interrotto e il testo del 1983: Il Natale del 1833, in cui Manzoni è la pietra miliare del raccontare stesso sia sul piano espressivo che più completamente tematico. Gli altri testi fanno da contorno e danno un senso al rapporto storica – cristianità.
Ma il libro (ovvero parliamo adesso di romanzo) più “artisticamente” e dolentemente penetrante e “forte” è senza dubbio Il quinto evangelio del 1975. Un romanzo dentro il romanzo. La ricerca di rivelazione, di speranza, la considerazione del bisogno di attesa sono dentro le pagine di questo nuovo vangelo dove leggenda, mito e sogno sono un intreccio armonico che tende a ristabilire letterariamente un processo di vitalità e una consapevolezza di accettazione.
Il bisogno di Cristo è il bisogno di ritrovare un punto certo e, dunque, la necessità di una speranza che va verso la verità. La verità cercata, la verità che diventa un viaggio. Ma noi siamo non solo in viaggio ma anche il Viaggio e apparteniamo alla generazione dell’esodo. Scrive Pomilio: “Le generazioni degli uomini sono simili a degli assetati lungo le rive d’un vasto fiume: ciascuna corre ad attingere quanto occorre alla sua sete, ma il fiume continua a scorrere ugualmente vasto e pieno”.
Tutti i romanzi di Pomilio sono un desiderio di terra promessa e si qualificano letterariamente sul piano di una tensione espressiva. È come se ci fosse, sulla pagina, una cromaticità di colori ma l’esistenzialità è nella inquietudine del religioso. Pomilio fa parte di un percorso narrativo che sottolinea una vera e propria “tendenza”. Antonio Barolini, Piero Bargellini, il radicamento della formazione discussa nella rivista “Il Frontespizio”, Diego Fabbri sino agli “Scrittori cristiani dolenti o nolenti” di Francesco Grisi che trovano, comunque, in Manzoni e Papini due chiavi di lettura fondamentali.
Si, una generazione di scrittori che ha tracciato lungo la metafora dell’esodo il bisogno di redenzione. E la letteratura serve a decodificare la metafora e a riempirla di contenuti fondamentali e universali con trasporto personale. Il quinto evangelio potrebbe essere definito il manifesto di una letteratura che ha in sé la comprensione e l’attesa dell’esodo, la poetica e la francescana memoria della pazienza. Già, l’esodo è l’esplorazione di un viaggio che prioritariamente si concede a Mosè, poi a Cristo, poi al dubbio, poi al tradimento e alla fine c’è un attraversamento francescano.
La ricerca della terra promessa è sostanzialmente l’andare verso. Il viaggio già in sé rappresenta il cerchio della memoria. Perché appunto di memoria si tratta questo andare verso che raccoglie il venire da. È un costante pellegrinaggio che ci porta sempre oltre. In realtà Pomilio si addentra in quelle “nostre radici più profonde ed invisibili” che appartengono al popolo della cristianità. Anche se, come scrive Francesco Grisi in un saggio su Pomilio, “l’uomo rimane solo nella sua tristezza accorata che invade lenta come un fiume che cammina largo verso la foce. E questa problematica si lega religiosamente ai valori morali…”.
Ci sono allegorie che campeggiano e danno senso: “Un uomo andava pellegrino cercando il quinto evangelio. Lo venne a sapere un santo vescovo e, l’affetto d’averlo veduto vecchio e stanco, gli mandò a dire queste parole: ‘Procura d’incontrare il Cristo e avrai trovato il quinto evangelio’”. È quello che dice il professore Bergin nel romanzo di Pomilio. Appunto il viaggio. Ma in tutti i romanzi di Pomilio c’è la “frase” del dolore ma questo dolore diventa “un sentimento rassicurante”. Così ne Il testimone. Così ne La compromissione. Così in Natale 1883. Così, appunto, in Il quinto evangelio.
In fondo tutto è nel dettato dei versi della “Preghiera al crocifisso” dell’anonimo fiammingo del XV secolo che Pomilio cita. Ecco un passaggio: “Ma ciò che facciamo in parole e opere è l’evangelio che si sta scrivendo”. La promessa, la provvidenza, il sentimento dell’attesa che si fa speranza e poi riconciliazione. Il divino nella giustizia che coniuga fede e cultura.
È una letteratura, quella di Pomilio, che ritrova così il suo essere in un tempo lungo che è tempo della Misericordia e della Passione. È uno scrittore di quella letteratura della Provvidenza che segna un tracciato preciso e indelebile nel contesto del nostro Novecento. Non solo scrittore cattolico. Soprattutto scrittore della testimonianza. Era nato nel 1921. In Abruzzo. La morte, a Napoli 1990.