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CARLO SGORLON A 85 ANNI DALLA NASCITA
22/09/2015, 19:09C’è una poetica sottile nelle maglie del linguaggio di Carlo Sgorlon ( Casacco, Udine, 26 luglio 1930 – Udine 25 dicembre 2009) che è quella del ritorno ai miti. Un ritorno al mito ancestrale o primordiale che si intreccia con le eredità della tradizione di una terra, di una civiltà contadina e di un popolo che è stato attraversato dalla favola ed ha attraversato l’immaginario rituale di una memoria che riecheggia con elementi di profonda nostalgia.
Non c’ è soltanto il paesaggio geografico che parla con la nostalgia dei sensi. C’è il paesaggio nel tempo che si fa memoria e lancia la sua sfida con gli occhi della malinconia. Una malinconia ammaliatrice e accompagna il trascorso dei personaggi, i ricordi che sono pezzi di vita, la magia del luogo che ha sempre una marcata interiorizzazione nei nomi dei personaggi stessi, i quali diventano protagonisti, figure e controfigure.
Carlo Sgorlon ha fatto del suo narrato una poetica che penetra l’intreccio tra tessuto dei luoghi, che diventa, però, territorio dell’anima e metafora della storia (da “La luna color ametista” del 1972 a “La conchiglia di Anataj” del 1983). La storia e le storie non vengono narrate o raccontate ma sono certamente assorbite all’interno di un processo mitico – simbolico che è espressione di un raccordo tra una fase sacrale e una entratura nei percorsi magico – antropologici del mondo contadino (da “I sette veli” del 1986 a “Le tribù” del 1990; da “Il patriarcato della luna” del 1991 a “La malga di Sir” del 1997”).
Nella scrittura di Sgorlon la parola stessa è da sottolineare come modello religioso. Non c’è impostazione o proposta di immagine (e di immagini) senza la struttura religiosa che raccoglie sia le istanze del linguaggio, e quindi delle parole o della Parola, sia il mosaico del percorso narrante. È una scrittura nei simboli. Gli stessi personaggi sembrano coordinati intorno a dei simboli chiave (si pensi a “La tredicesima notte” del 2001, a “Il velo di Maya” del 2006, a “L’alchimista degli strati” del 2008, o ai racconti straordinari che si leggono in “Il quarto Re mago” del 1986, a ancora ai “Racconti della terra di Canan” del 1989).
Così la lingua (penso all’intreccio che si vive in “La carrozza di rame” del 1979 o a “Il calderas” del 1988) come fenomeno non solo comunicativo ma come scavo nelle radici di un popolo. Il suo popolo, quello friulano, ha una matrice etnica che non si riversa soltanto nelle forme di una cultura della tradizione (spesso il richiamo de “Gli dei torneranno” del 1977 è emblematico) ma soprattutto nell’incastonare la lingua in una diretta visione che richiama il senso dell’archeologia della parola come infanzia di un territorio (penso a “La contrada” del 1981). La sua poetica è il mistero del cammino della parola che si sprigiona di quella inconsapevolezza dialogica per lasciarsi catturare dal sentimento della memoria che caratterizza tutto il vissuto stesso della nostalgia dell’uomo.
Una poetica dei simboli (ritornano “I sette veli” del 1986) che si forma nei segni presenti in una realtà territoriale. La realtà scompare come scompare la storia. Ma resta la pagina del territorio e la storia si dipana lungo il tempo ed è, appunto, il tempo che recita la meraviglia, il dolore, il tragico, la fisicità, l’onirico, il misterioso, l’incanto – magia (ci sono echi che rimandano costantemente a “L’alchimista degli strati” del 2008 o a “Il velo di Maya” del 2006 o a “Il filo di seta” del 1999). Tutti tasselli che danno vita a quel senso dell’identità che è dentro il legame civiltà – tempo.
Comunque, più di un realismo magico si dovrebbe parlare di un magico sentiero della nostalgia o di un tempo sacro. Cosa c’è di realismo in Sgorlon? La storia è una realtà, anzi è stata una realtà, in quanto la storia vive nel consumato o meglio nel “già stato”. Il paesaggio è una realtà, anzi è un passaggio di realtà nella cosmografia delle stagioni. I personaggi sono in bilico tra il reale e la fantasia, anzi diventano sia memoria che destino e quindi la realtà si perde nel vento delle finzioni. La lingua può essere una realtà? (mi riferisco, a tal proposito, a “Prime di sere” del 1979 e a “Il Dolfin” del 1982). Direi di no, perché in Sgorlon la parola assume sempre la versione e visione allegorica. Un linguaggio allegorico? Certo, fino a quando l’allegoria non si trasforma in vera e propria metafora del tempo.
C’è il magico ma non il realismo. Perché ad insistere è il tempo e non si tratta di un tempo storico ma di un tempo mitico. Parlerei piuttosto di un tempo magico e non di un realismo magico. È proprio questo tempo che si incastra tra i personaggi ma anche è stato ben incastrato nella vita di un mondo popolare che ha formato l’uomo e lo scrittore Sgorlon. Non manca l’ironia. L’ironia è nel Kafka ben analizzato e studiato da Sgorlon (“Kafka narratore” del 1961, Sgorlon, d’altronde, si è laureato con una tesi su Kafka). Un’ironia che è nel dialetto friulano al quale lo scrittore ha dedicato la sua attenzione nella comprensione dei moduli di ricerca di una identità delle radici. Una ironia che non cede al comico o al sarcasmo ma va nel profondo di quelle strutture mentali che ci conducono al sacro, al magico, all’archetipo.
L’io narrante è sempre nel di dentro di questi passaggi e di questi processi che si assumono come rivelazione poetica ma non dimenticano la tessitura antropologica. Ed è come se la poetica di Sgorlon assumesse in sé la capacità di leggere antropologicamente i fenomeni del tempo magico (sottolineo ancora “Il velo di Maya” o romanzi come “Regina di Saba” del 1975 o “Il tono di legno” del 1973) espresso sia dalle avventure narrate sia dai personaggi che vivono dentro il gioco infinito del raccontare. Lo stesso Sgorlon ebbe a dire, parlando della sua narrativa, “Io possiedo un forte istinto narrativo, e a quello mi abbandono. È una specie di bussola incorporata nel mio inconscio. Seguo i grandi archetipi del narrare”.
In questi archetipi del narrare i miti, le fiabe, i riti disegnano tracciati indelebili con i quali è la scrittura a fare i conti ma anche l’anima dello scrittore. La parola e la fantasia. I sogni e il mistero. Un rapporto inscindibile che ha fatto di Carlo Sgorlon uno scrittore dentro la religiosità della tradizione. Religiosità e tradizione: due riferimenti che restano modelli interpretativi in una poetica, in cui il senso del primitivo è una ricerca costante, che va oltre la storia per ridefinirsi nella sensualità della favola e del mondo onirico di una civiltà che solca i passi di una eredità e di un pathos non solo immaginari ma vivi dentro la nostra esistenza.