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Giuseppe Ungaretti a 45 anni dalla morte: Una metafisica dolorante

26/10/2015, 19:07

L’alchimia leopardiana “invade” il primo decennio del Novecento e lo fa, in modo particolare, con due poeti che aprono realmente l’età della modernità: Vincenzo Cardarelli e Giuseppe Ungaretti, i cui parametri, hanno eredità, in un certo qual modo, di matrice pascoliana. Sarà Cardarelli a rompere con la tradizione filtrata da Pascoli e lo fa con una motivazione poetica più che culturale.
Il punto di “divisione” è proprio Leopardi, il quale attraverso la rivista “La Ronda” diventerà il riferimento principe. Ma Ungaretti  dedicherà a Leopardi delle lezioni magistrali il cui obiettivo è quello di dare un senso al Novecento poetico scavando non nel ‘nido’ ma nel ‘borgo’. Un Ungaretti mediterraneo le cui radici scavano in quell’Alessandria d’Egitto che è centro tra Oriente ed Occidente. Siamo a 45 anni dalla morte. Ungaretti era nato il 10 febbraio del 1888 a Alessandria d'Egitto e morto a Milano l’1 giugno 1970.

Nel primo Novecento, che eredita un Ottocento carducciano, si era completamente sviluppato un tessuto che troverà una chiave di lettura in alcuni autori che vanno da Pascoli e D’Annunzio attraversando tutte le fasi dei “Crepuscoli” con i quali il verso moderno si farà modello nella semantica contemporanea. Ovvero, quel verso che rivoluzionerà il linguaggio si ascolterà con altri poeti e con altre  tensioni e troverà in un autore come Giuseppe Ungaretti la sintesi e il travaglio di una parola sofferta, che si consoliderà in quel tempo del linguaggio che accomuna l’onirico, l’esistenziale e il dolore, come consapevolezza dell’uomo, pur in un percorso nel quale il segno religioso diventa una costante problematica dell’essere.
      La parola così  è uno scavo  e il linguaggio si fa misura “leopardiana”, ripresa dall’ultimo Pavese, di un dialogo sempre vivo tra la vita e la morte in quel tempo dell’uomo che conosce l’attesa e la speranza. Ebbene, il linguaggio, la metafora e la lingua in Ungaretti (e si leggerà anche in Pavese ultimo) non sono altro da sé. Ma vivono nella coscienza di una comunicazione interiore.
      C’è da dire che l’Ermetismo è stato l’asse dello sviluppo poetico degli anni Trenta. La rivista “Primato”, nei primissimi anni Quaranta, seppe cogliere lo spirito di quella temperie e avviò una discussione abbastanza articolata tanto che trovarono spazio, sulla rivista, poeti e critici che furono l’anima di quel particolare contesto storico – letterario.
In fondo la poesia Ermetica aveva caratterizzato già la poesia di quegli anni. Giuseppe Ungaretti  fu il protagonista del rinnovamento poetico. Le sue prime poesie risalgono ad anni anteriori rispetto all’esplosione dell’Ermetismo.


      Ungaretti poneva in essere una questione linguistica e lirica consistente che trovò nell’Ermetismo un punto di forza. Anzi fu l’Ermetismo a trovare nell’esperienza ungarettiana un modello poetico ben definito. “Primato” seppe raccogliere le istanze critiche e poetiche alzando il tono di una discussione teorica seria e matura.
Sul numero 9 dell’1 luglio 1940 (numero con il quale si interromperà il dibattito) la posizione di Titta Risa è ben rappresentata grazie anche alla citazione di alcuni dei poeti ermetici e alla differenziazione che fa tra un poeta e l’altro: “…è impossibile confondere il linguaggio di Ungaretti con quello di Quasimodo, e non percepirne subito la diversità del sentimento e del tono…Ora, cogliere questa diversità e descrivere l’individualità poetica di ciascuno, se in un primo tempo si può fare nell’ambito di una poetica generale (…) in un secondo tempo, che è operazione propriamente critica, bisognerà farlo nel seno stesso dell’individualità d’un poeta: isolando dalla lingua … comune di quella corrente del gusto, il linguaggio proprio del poeta in esame”.
 
      Mi pare un’osservazione di quelle ben marcate in termini di approfondimento storico – critico che supera ogni incasellamento meta-ideologico. Sempre su questo fascicolo interverranno Arnaldo Bocelli e Danilo Bartoletti. Il primo si soffermerà su una interessante chiosa: “Accanto alla parola preziosa, di impronta dannunziana (di un D’Annunzio ricevuto attraverso la poesia ermetica), o alla erudita, è la parola tecnica di un tecnicismo spesso desunto dalla critica delle altre arti, massime della pittura, e della musica (da quella critica, cioè, che più è stata restia nell’accogliere l’idealismo)”.
Accanto alla lingua ci sono i simboli, il mito, le metafore, il dolorante segno metafisico di una classicità sofferta. È  Ungaretti, comunque, che ci trasmette una delle sensazioni più toccanti con quei suoi versi dedicati a Didone: “Ora il vento s’è fatto silenzioso/E silenzioso il mare,/Tutto tace; ma grido/Il grido sola, del mio cuore,/Grido d’amore, grido di vergogna/Del mio cuore che brucia/Da quando ti mirai e m’hai guardata/E più non sono che un oggetto debole.// Grido e brucia il mio cuore senza pace/Da quando più non sono/Se non cosa in rovina e abbandonata”.
Ungaretti dirà: “Devo riconoscerlo c’è uno stimolo eruttivo, non so quali ingiunzioni alla rivolta, all’anarchia sempre in me”. E ancora Ungaretti: “Solo più tardi arriverò a sentire in tutta la sua grandezza e la sua segreta potenza quell’uomo precursore, in un certo senso, che fu Nietzsche”. Un precursore dunque. E Ungaretti aveva ragione.
Che Giuseppe Ungaretti sia uno dei poeti più importanti del nostro Novecento non c’è assolutamente da meravigliarsi e da discutere. Si tratta di un poeta di rottura sul piano  linguistico e un poeta che fa della metafora della parola una tensione espressiva, che si traduce sul piano della comunicazione. 
La poesia, e in modo più specifico la letteratura, è metafisica dello spirito ma è anche dimensione dell’esistere. I due riferimenti di temperie che potrebbero confrontarsi sono Ungaretti e Pavese nel tracciato di una metafisica che riscopre il dolore della classicità e la tradizione della metafora.
Bisogna ritornare alla poesia. Ha sottolineato  Mario Luzi: “Spero in un uomo che si appartenga e non sia alieno a sé stesso, quale invece rischierebbe di divenire se la poesia cadesse in completa disgrazia e fosse oggetto di abiura”. L’uomo deve appartenersi in questa nostra epoca di disappartenenza. Questo è il vero messaggio e la poesia ha un compito non solo letterario, ma anche umano, etico e religioso.
Ungaretti resta il punto di riferimento e il legame tra modernità e contemporaneità resta: Giacomo Leopardi. Cardarelli, Ungaretti e Pavese sono i continuatore del misticismo della parola che si fa metafisica dolorante.

Pierfranco Bruni
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