Sei in: Rubrica Anniversari » CESARE PAVESE A 80 ANNI DALLA PRIMA PUBBLICAZIONE DI "LAVORARE STANCA"
CESARE PAVESE A 80 ANNI DALLA PRIMA PUBBLICAZIONE DI "LAVORARE STANCA"
L'amore per Constance Dowling e il "vizio assurdo" di vivere di un grande scrittore
28/05/2016, 13:35A 80 anni della prima pubblicazione di Cesare Pavese. Credo che si un appuntamento importante perché da questa poesia passano inevitabilmente i processi linguistici della poesia – prosa che ritorneranno al verso breve di Caproni e della stesso Pavese. “Lavorare stanca” con i suoi “Mari del Sud”. 1936. è una poesia che ha una forte connotazione mediterranea. Perché per Pavese il Mediterraneo è anche un archetipo nella ricerca letteraria di Cesare Pavese. Uno scavare tra i ricordi di una civiltà, di un popolo, di una nostalgia che attraversa il tempo. Il Mediterraneo è nei luoghi ma anche nei linguaggi. E' nel pensare ma anche nei volti e negli sguardi. Nei simboli e nei personaggi. Nelle donne dei suoi romanzi e in quelle reali.
Nei versi pubblicati nel 1936 c’è già tutto Pavese. Profeta del tragico che si vive in Constance. Ma voglio raccontarlo. Pavese, secondo la mia lettura, (tra i miei libri ci sono diversi video come https://www.youtube.com/watch?v=nXshZL7E1vA), resta il più grande autore del secondo Novecento: per originalità linguistica, per poetica e perché non ha mai ceduta alla vulgata neorealista.
Un mondo affascinante ma anche tragico. Il mito lo si racconta e lo si spiega grazie ad elementi culturali che sono vitali nella cultura del Mediterraneo. Le donne che sono state favola e tragedia camminano dentro il suo vissuto. In quel vissuto che esistenza e letteratura. Gli amori di Pavese sono modelli identitari. Voce, volti, gesti che hanno rimandi.
L'unica donna dai tratti non mediterranei è stata chiaramente Constance Dowling. Non una donna materna ma piuttosto una donna favola e tragedia. Un poeta e un uomo che ha studiato la grecità, il mito mediterraneo, la metafora del viaggio cosa poteva trovare in una donna fuga come Constance?
Il poeta di "Mediterranea" e di "Ulisse" cosa cercava negli occhi di una attrice americana? Un interrogativo che elude una risposta perché il misterioso incombe nella vita e nella letteratura di Pavese. Una metafora dell'America? O altro? Ci sono contraddizioni che non si spiegano però. Il disordine è un rischio ma anche un'armonia.
C'è un misterioso immenso che attanaglia i destini. Ma se in Constance non ci sono barlumi di un sentimento che ha richiami mediterranei nel grappolo di poesie dedicato a questa donna straordinariamente diversa dalle altre il tono, i singulti, le atmosfere. Le immagini hanno dimensioni di una poesia quasi ellenica. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Un canto lirico dalle espressioni oniriche il cui viaggio è tragico. Ma le infiltrazioni di un mito che ha echi greci è proprio nella sottolineatura delle parole, nel parlato - recitato, nel recitato - cantato, nel sognato magico. Pavese in Costance vedeva l'altra medaglia del mito. Anzi vi leggeva il superamento stesso del mito e il confrontarsi con il tempo della realtà restituiva passione e fuga. La donna evanescente.
La donna, appunto, fuga. Diversa da quella dalla voce roca ma anche diversa da Concia, o Cate o Elena o la stessa Rosetta. Forse sarebbe da inquadrarsi in una donna, piuttosto, fantasia ma che ha attecchito così profondamente nella sua carne, nel suo sangue, sulla sua pelle tanto da spingerlo nel "gorgo muto". Può essere vero che Pavese non si uccide per una donna, o forse non si uccide solo per Costance, o forse non si uccide per l'amore.
Constance assomma tutte le donne amate o le donne che avrebbe voluto amare o le donne che avrebbe voluto che lo amassero. Ma Constance non è una donna mediterranea e non è neppure una donna Langhe. E', comunque, una donna evanescente. "Dolce frutto che vivi/sotto il cielo chiaro,/che respiri e vivi/questa nostra stagione,/del tuo chiuso silenzio/è la tua forza. Come/erba viva nell'aria/rabbrividisci e ridi,/ma tu, tu sei terra./Sei radice feroce./Sei la terra che aspetta".
Perché radice e perché terra? Non è una donna, come si diceva, che proviene dal mito ma è, ugualmente, una donna terra, ma ugualmente è una donna radice. Era così penetrata nella coscienza di Pavese tanto da decodificarla come donna radice. Un sublime afflato dalle lunghe attese. Quella morte era anche la metafora della morte di un amore. Constance diventa così un disegno letterario. Un disegno però che coniuga poesia e vita.
La sua vita termina con l'allontanamento di questo amore. Eppure sin dall'inizio in Pavese il mito era stato il selvaggio che si impossessava dello sguardo, del corpo, del tempo. Constance non è neppure una donna selvaggia. E' una donna americana. Anzi, un'attrice. Un'attrice nella rivelazione della recita. Anche il suo rapporto con Pavese era da considerarsi tale?
La finzione, la maschera, il dubbio. Perché una donna terra? Concia era una donna terra come la stessa Elena ma anche come altre donne reali e penso qui a Bianca Garufi con la quale scrisse le pagine di Fuoco grande. Anche questo scritto rientra nella visione del mito - mediterraneo. Grande fuoco. Interminabile. Immenso fuoco nei sentieri della vita.
Constance neppure donna fuoco? "Dove sei tu, luce, è il mattino./Tu eri la vita e le cose./In te desti respiravamo/sotto il cielo che ancora è in noi./Non pena non febbre allora,/non quest'ombra greve del giorno/affollato e diverso. O luce,/chiarezza lontana, respiro/affannoso, rivolgi gli occhi/immobili e chiari su noi./E' buio il mattino che passa/senza la luce dei tuoi occhi". Uno specchio? Forse un sentire una leggerezza che con lentezza penetra l'anima.
Una donna leggera come una nube. Ma in lei Pavese aveva ridefinito il viaggio intrapreso con tutte le altre donne. Questa donna leggera è stata anche una donna morte. E' vero che non ci si uccide per una donna e tanto meno per una attrice. Ma Pavese non si è ucciso per questa donna. Si è ucciso anche per questa donna. E' innegabile questo fatto.
Il destino tragico ha voluto che non fosse né una donna mediterranea ne una donna fiume. Né una donna madre né una donna selvaggia. Ma solo una donna amante. Un tragico destino nei destini incrociati che lo hanno sempre catturato. Era amore? O solo una sfuggente passione o ancora un ripiego dopo i disamori e le disillusioni? Disamore. Sempre in Pavese ci sono state stagioni di disamore. Più il disamore che l'amore?
Pavese ha vissuto i suoi incontri lasciandosi ferire costantemente dai disamori. Brucianti disamori. Un incontro - mistero ma anche un incontro - gioco. Senza ironia. Constance, d'altronde, è stata, tra l'altro, anche una donna senza ironia. Ma è stata lei a condurlo per mano verso quel viaggio muto che ha nome "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi".
"Certo in lei non c'è soltanto lei, ma tutta la mia vita passata, la inconsapevole preparazione - l'America, il ritegno ascetico, l'insofferenza delle piccole cose, il mio mestiere. Lei è la poesia, nel più letterale dei sensi. Possibile che non l'abbia sentito?". Si legge così alla data del 26 aprile, mercoledì, 1950, nelle pagine, ultime, de Il mestiere di vivere di Cesare Pavese. Il suo amore, quello di Cesare Pavese, con l'attrice americana Constance Dowling, ha un triste epilogo. Forse una fine annunciata nella tragedia del suicidio del poeta nella fine di un'estate agostiniana in una Torino malinconica e solitaria.
Pavese, lo scrittore degli amori perduti, traditi, incompresi. Lo ha raccontati ma li ha prima vissuti, sofferti e per questi amori è stato lacerato. Constance la donna dell'illusione, della disillusione, la donna passione ma anche la donna del disamore. La donna, in fondo, che lo accompagna verso quell'epilogo già raccontato in un dei suoi romanzi. Una scena già vista. Ma questa donna è la donna vita e la donna morte.
Conosciuta alla fine di dicembre dell'anno prima. In lei vi leggeva la favola ma anche la follia. Non era una donna terra, Langhe, collina, paese. Non una donna radici ma piuttosto una donna fuga, distanza, lontananza. Certamente una donna attesa. In lei vi aveva configurato tutto un viaggio poetico intrecciato in un linguaggio simbolico i cui elementi sono tutti giocati tra metafora ed esistenza.
La poesia e Constance. In una lettera indirizzata proprio a lei, datata 17 aprile 1950 e partiva da Torino, si può leggere: "Non sono più in animo di scrivere poesie. Le poesie sono venute con te e se ne vanno con te. (…) Farai in tempo a ricevere La luna e i falò. Forse sarà già ad aspettarti in North Vista Avenue prima che tu arrivi. Sono così contento che ci sia il tuo nome. Ricorda che ho scritto questo libro - interamente - prima di conoscerti, eppure in qualche modo sentivo in questo libro che stavi per venire. Non è stato meraviglioso? Viso di primavera, io di te amavo tutto, non solo la tua bellezza, il che è abbastanza facile, ma anche la tua bruttezza, i tuoi momenti brutti, la tua tache noire, il tuo viso chiuso. E pure ti compiango. Non dimenticarlo".
Un amore, dunque, che non può essere letto soltanto come espressione di un sentimento e di una passione ma dentro questo amore c'è tutta una vita che è fatta, tra l'altro, per Pavese, di letteratura, di parole, di simboli. E' fatto di un costante conflitto che intreccia l'amore per questa donna (che decodifica tutto un vissuto umano e sentimentale che è quello di Pavese) con la letteratura (nella quale l'uomo - libro, richiamato dallo stesso Pavese, è ben definito).
Una donna fatale? Forse una donna mito. Idealizzata. Nel mito di Leucò. In questo mito la letteratura si dichiara come destino. Una solitudine tra le ombre del tempo. Constance sarebbe potuta diventare un filo di Arianna. Ma Pavese si è lasciato intrappolare nel labirinto.
Alla sorella di Constance, Doris, Pavese in data 6 luglio 1950 da Torino, scriveva: "Uno non può avere troppo dalla vita (!), ma tutto quello che uno ha sembra spazzatura. E' da tanto che ho capito che la mia sorte è abbracciare delle ombre. (…)". Non ci sono, qui, metafore. Si è al culmine di un percorso. La metafora, invece, la usa quando si paragona ad una candela. Infatti, in una lettera a Pierina dell'agosto del 1950 da Bocca di Magra, si legge: "Io sono, come si dice, alla fine della candela. (…) Non si può bruciare la candela dalle due parti - nel mio caso l'ho bruciata tutta da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto".
La cenere dei suoi libri, dunque, è una allegoria tragica ma anche sublime in una ironia sconvolgente. Quella stessa ironia che troveremo annotata nelle ultime sottolineature del diario. Questo amore immenso è un amore non deviante e neppure condizionante. E' piuttosto un amore che assomma nostalgie e speranze. Vi restano solo le nostalgie e rimangono rinchiuse nel labirinto, insieme a lui. In fondo siamo costantemente a quel "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…".
20 luglio 1950 ancora dal suo diario: "Non si può finire con stile. Adesso la tentazione di lei". 14 agosto: "E anche lei finisce allo stesso modo. Anche lei. Va bene. Sono onde di questo mare". 16 agosto: "Cara, forse tu sei davvero la migliore - quella vera. Ma non ho più il tempo di dirtelo, di fartelo sapere - e poi, se anche potessi, resta la prova, la prova, il fallimento".
Ma la verità sta, proprio, in questa frase lapidaria: "Certo in lei non c'è soltanto lei, ma tutta la mia vita passata". E' proprio qui il punto e il disegno di un'esistenza. Quel "Viso di primavera" è una carezza che lascia rughe sotto una pioggia caduta su "dolci selciati" pur essendo "una pioggia leggera/come un alito o un passo". Perché il mattino che trascorre lento è buio "senza la luce dei tuoi occhi".
Pavese in Constance definisce gli ultimi tasselli di un mosaico chiamato, appunto, destino. C'è in lei il suo destino. Tutto è destino. Così compreso il suo amore perduto per l'attrice americana, così per quella donna dalla voce rauca che sono un disegno nel cerchio magico della sua poetica. La donna non come esperienza ma soprattutto come mito.
Scrive Davide Lajolo in Il "vizio assurdo" Storia di Cesare Pavese (Mondadori 1978): "Un momento breve. E' quella felicità che lo distoglie per qualche tempo al suo tormento gli pare più grande. Torna a sentirsi innamorato. Non è riuscito allora, quand'era giovane, a sposare la donna dalla voce rauca, né le altre, ma ora s'afferra all'ultima speranza, a quest'ultima umana àncora di salvezza. Constance è intelligente, estrosa, colta. Lo sa capire anche nellle allucinazioni; ma Constance è ambigua, imprendibile. E anche Costance lo abbandona; e anche Constance corre da un altro uomo. Così è accaduto sempre a Pavese con le donne che amava" (pag. 333).
Constance è il vissuto che si delinea attraverso il tragico in Leucò (scritto prima di conoscerla), è la luna ma anche il falò (e ancora Constance non è c'è nella vita di Pavese) in una richiesta di capire quei luoghi unici che sono nell'interpretazione dell'infanzia perché, come scrive Davide Lajolo nel testo citato, per Pavese "la luna… è l'adolescenza e l'età dei padri…la terra antica e la terra promessa", è il "frantoio/di stagioni e di sogni" de La terra e la morte (ma ancora Constance non c'è) ed è quella "luce e il mattino", quella "radice feroce", quel "passo leggero", quel "sangue di primavera", quel "tumulto delle strade" che "sarà il tumulto del cuore/nella luce smarrita", quel "cuore che sussulti…" di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (dove, questa volta, Constance c'è).
Forse oltre il viaggio. L'amore tra Pavese e Constance Dowling è un amore consumatosi tra l'indefinibile inquietudine di un poeta e la recita di un attrice. Constance non ha saputo o voluto ma che, in realtà, non amava la solitudine di un poeta. E Pavese non poteva che lasciarle questo sussulto: "Sei distesa sotto la notte/come un chiuso orizzonte morto".
Pavese era convinto profondamente che "L'amore/è il tuo sangue - non altro". Una stagione, breve, quell'amore tra Cesare e Constance. Amore e morte. Lo aveva scritto alla data del 13 maggio: "amore e morte - questo è un archetipo ancestrale". L'avventura - destino, tra Pavese e il viso primaverile di Constance, trova proprio qui una dimensione onirico - tragica. Mi pare, così, significativa questa cesellatura di Cesare Segre: "Pavese muore, ma da scrittore. Da scrittore che non scriverà più" (Introduzione a Il mestiere di vivere, Einaudi, 2000, pag. X). Muore da Scrittore perché è stato e resta un grande scrittore.