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A 118 aANNI DALLA NASCITA E A 60 DALLA MORTE (IL PROSSIMO ANNO) DI GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA

23/09/2016, 10:51

 Giuseppe Tomasi di Lampedusa nasce a Palermo il 23 dicembre 1896 e muore Roma il 23 luglio 1957.  Nel 1958 veniva pubblicato Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Un romanzo che secondo Carlo Bo “rappresenta un miracolo: quello di un libro ricco di cultura letteraria che riesce a raggiungere l’animo popolare”.
      Rifiutato da Elio Vittoriani. Sia dall’Einaudi che da Mondatori. Trova ospitalità dalla Feltrinelli. Ma chi ha creduto immediatamente nelle pagine di Tomasi di Lampedusa è stato Giorgio Bassani. La prima tiratura del libro è di tremila copie. La seconda è di quattromila, sempre nel 1958. Il resto è nella storia di questo romanzo. Nel 1959 vince il “Premio Strega”. A presentarlo sono Ignazio Silone e Geno Pampaloni. Oggi Asor Rosa lo ignora nella letteratura italiana dell’Einaudi.

      Intorno alla fine del 1954 Tomasi di Lampedusa comincia a stendere le prime pagine. La metafora della memoria lo cattura. Nei luoghi della mia prima infanzia incide: “Quando ci si trova nel declino della vita è imperativo cercar di raccogliere il più possibile delle sensazioni che hanno attraversato questo nostro organismo. A pochi riuscirà di fare così un capolavoro  (Rousseau, Stendhal, Proust),  ma a tutti dovrebbe essere possibile preservare in tal modo qualcosa che senza questo lieve sforzo andrebbe perduto”.
      Il messaggio è chiaro. I luoghi, i personaggi, i dialoghi, il pensare sono già consapevolezza di un trapasso tra vita e letteratura. I ricordi diventano l’invenzione lungo il tragitto narrante. Ci si impossessa di un parametro fortemente esistenziale e il “rifiuto della storia”, per parafrasare un saggio di Gian Paolo Marchi dedicato a Verga e il rifiuto della storia, è un ritmo che cesella la psicologia dei personaggi più che la rappresentazione e la chiusura di un tempo cronologico, che non può conoscere l’essenza della memoria come fatto  rivelatore. La rivelazione delle immagini stesse è la trasformazione della storia come susseguirsi di atti cronologici in tasselli di una memoria che coinvolge il tempo come percezione e l’avventura dei personaggi come segni di una indelebile spiritualità. Si legge Il Gattopardo nel dialogo costante tra l’io narrante e il narrato. Il Principe e lo scrittore sono la voce e il destino.
      I tre contesti che caratterizzano Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e formano il percorso narrante anche sul piano delle finalizzazioni politiche sono il 1860, il 1885 e il 1910.
     

Ma questo romanzo si presta ad una chiave di lettura che non è soltanto storica, politica, ideologica. Non è soltanto un romanzo che pone all’attenzione la questione incompiuta di quella nascita di unità nazionale che viene disegnata e sottolineata nel corso i tutta l’impostazione tematica.

      Giuseppe Tomasi di Lampedusa è, comunque, uno scrittore che fa i conti costantemente con la storia, ma in questa storia c’è una prevalenza tridimensionale della memoria. Vediamo come.

      I fatti vengono raccontati attraverso una rivisitazione nella quale prevale energicamente il ricordo. La storia, pur fissando delle fasi cronologiche, si serve del ricordo. Quindi viene meno la storia come momento di pianificazione della ragione. Nel ricordo prevale il racconto come sentimento. O meglio: negli avvenimenti che si intrecciano la forza trainante non è la logica della giustificazione storica ma è il sentimento come coscienza popolare che prende il sopravvento. Questo è già il primo aspetto. Ne subentra un secondo. La storia come ricordo non avrebbe senso se nei personaggi, che si agitano sullo scenario, mancasse l’avventura del destino. Ogni personaggio recita la sua avventura perché recita un’appartenenza d un destino. È in questo destino che si intravede l’incontro tra la reiterpretazione del passato e la tragedia del futuro. Il caso emblematico è quello del Principe Fabrizio. Nel paesaggio storico di un destino epocale avvengono due ulteriori trapassi. Quello che coinvolge totalmente la fine di una civiltà e l’inizio di un nuovo modello. Quello che segna la fine di una nobiltà e l’inizio di una nuova aristocrazia o meglio di una nuova borghesia ( il caso di Sedara). In questo secondo aspetto c’è un coinvolgimento che avrà i suoi effetti sia in termini storici che sociali (Tancredi e Angelica rappresentano la nuova visione del mondo). Nel terzo aspetto, invece, è da sottolineare la presenza, non singolare ma assidua, del paesaggio siciliano. E la Sicilia è sostanzialmente parte integrante di tutta l’avventura che si compie nel romanzo e può avere una spiegazione sia su un versante prettamente storico sia su un versante in cui letteratura e appartenenza al luogo costituiscono in questo caso specifico una valenza mitica. Il paesaggio della Sicilia in tutte le sue fasi storiche menzionate nel romanzo rappresenta l’humus esistenziale e culturale.

La Sicilia come metafora, ma anche come spiegazione di una dimensione storica e politica. La tragedia di una civiltà è il senso di decadenza, che si ascolta dalle parole che Don Fabrizio dice a Chevalley.

     Si tratta di una sottolineatura importante. C’è all’interno una spiegazione storica e culturale. È la spiegazione di tutto e tutti vi trovano il loro intreccio tra destino e memoria, appunto.

      La Sicilia e i Siciliani. È un richiamo che spesso ritorna tra le parole di Don Fabrizio. Un richiamo che suona come metafora ma anche come interpretazione di un profondo processo culturale. La tristezza e il suono di tragedia si avvertono, non tanto perché si è alla fine di un ciclo, quando ci si rende conto di quella coscientizzazione epocale, che coinvolge tutto il popolo meridionale. La tragedia e l’ironia del Principe sono già di per sé l’indicazione di una sofferenza che è la sofferenza di una antica sopportazione di tutto un popolo.

      Indubbiamente, la figura di Don Fabrizio campeggia e traccia percorsi all’interno del romanzo. Il Gattopardo d’altronde non è un romanzo che ha una sua specificità narrativa. È un romanzo di ritratti e di fissazioni di immagini. Si pensi anche al capitolo dedicato a Padre Pirrone o all’ultima parte. Si pensi al capitolo tutto offerto alla morte del Principe.

      Il corteggiare la morte è avere presente la sensualità della vita. La morte del Principe annuncia la fine di tutto ma è oltre la passionalità per la vita. Il capitolo dedicato al ballo è un preavviso di fine ma è anche l’angoscia di una perduta sensualità. Vi resta l’ironia. Quel capitolo dedicato al ballo è il tocco magico dell’eros ma è anche una marcata sottolineatura ironica.

      La morte come bellezza. Ma forse come cominciamento di una nuova avventura. Il teatro e la recita sono nel ballo. In quel ballo in cui Don Fabrizio misura se stesso respirando sui capelli di Angelica e assaggiando la gelosia di Tancredi. La giovinezza ferita. Il tempo lacerato. La storia che riprende il suo corso. Davanti ad un mondo in decadenza la morte è l’unica risoluzione perché è, giustamente, oltre la realtà. E Don Fabrizio è conscio di ciò. Misura se stesso rappresentandosi in quel ballo con Angelica. L’ “aroma di pelle giovane e liscia di Angelica è appunto la misura del tempo. Il ballo che alla fine resta anch’esso una metafora sprigiona un ‘influsso sensuale’”. È la vita che recita la sua eredità tra l’amore dei due giovani e la sopportazione della maschera. Il Principe indossa una maschera. Viene lacerato dal destino. L’unica cosa che lo rende vitale è la memoria. Questa sua memoria è in una attesa che lo accompagna verso appuntamenti. Chiede un’“appuntamento meno effimero”. Così anche la morte diventa interiorizzazione della metafora.

      Proust è stato importante per Tomasi di Lampedusa. Oltretutto perché il tempo perduto diventa nei luoghi, nei sentieri e nella coscienza della memoria tempo ritrovato. E a sancire questo rapporto o questo protocollo esistenziale è appunto la scrittura, ovvero la letteratura. Il ricordo è i ricordi e questi sono la memoria e la memoria non è soltanto nel tempo ma è il Tempo. Il passato è la coscienza, dunque, che ci permette di rivivere il perduto nella metafora della vita.

      In Tomasi di Lampedusa non ci sono soltanto sensazioni che danno voce alla scrittura. Ci sono perdite reali. Come la casa. Una casa distrutta è la casa distrutta. E quella casa era l’infanzia. Una stagione del tempo che si è dilatata nel tempo – memoria. La casa – infanzia è la scomparsa non di un ricordo, ma di una storia che non è più possibile reperirla se non attraverso la visione – simbolo di un ancoraggio alla letteratura – conchiglia. Cioè alla letteratura che custodisce ciò che Corrado Alvaro chiamava “mondo sommerso”

      In alcune lettere scritte all’amico Guido Lajolo che era andato a vivere in Brasile (che il settimanale L’Espresso” ha pubblicato a cura di Giuseppe Carrieri l’8 gennaio del 1984) alla data del 31 marzo 1956, Tomasi di Lampedusa, annota : “Il protagonista è il Principe di Salina, tenue travestimento del Principe di Lampedusa mio bisnonno. E gli amici che lo hanno letto dicono che il Principe di Salina rassomiglia maledettamente a me stesso. (…) Vi sono molti ricordi personali miei e la descrizione di alcuni ambienti è assolutamente autentica…”. Nella lettera del 7 giugno si trova sottolineato : “ … il protagonista sono i, in fondo, io stesso e il personaggio chiamato Tancredi è il mio figlio adottivo”. Nella successiva del 2 gennaio 1957 si può leggere : “Non vorrei però che tu credessi che è un romanzo storico! Non si vedono né Garibaldi né altri: l’ambiente solo è del 1860; il protagonista Don Fabrizio, esprime completamente le mie idee, e Tancredi, suo nipote, è il ritratto di Giò in quanto all’aspetto ed alle maniere; per ciò che riguarda il morale Giò è, per fortuna, assai meglio di lui. // In quanto ai ‘Vicerè’ il punto di vista è del tutto differente: il ‘Gattopardo’ è l’aristocrazia vista dal di dentro senza compiacimenti ma anche senza le intenzioni ribellistiche di De Roberto”.

      È chiara la manifestazione che emerge da questa lettere. Autobiografia, superamento della storia, superamento, in termini critico- letterari, del naturalismo – verismo. È una chiave di lettura significativa perché sposta definitivamente l’attenzione dalla storia ai personaggi, dalla realtà alla memoria. In un ricordo di Gioacchino Lanza Tomasi (il figlio adottivo) apparso su “Tuttolibri” supplemento al quotidiano “La Stampa” si legge: “ Il problema autobiografico del Gattopardo va a mio avviso connesso a quanto rivela nella lettera a Lajulo. Ed abbiamo allora un esempio di autobiografia del lutto particolare…(…) Di qui la costruzione del romanzo di famiglia quale favola personale della propria famiglia, in cui i sogni di desiderio sono liberi di intessere trame di passioni appagate. Nell’opera letteraria si sarebbe attuata l’utopia consentita…(…) Come uomo sapeva di aver risolto nel romanzo il proprio problema esistenziale, sapeva di aver riacquistato attraverso il romanzo una identità che gli appariva per l’innanzi sfuggente”.

      Il sentire della metafora in Tomasi di Lampedusa congiunge il tempo – eros al tempo – morte. Ciò lo si verifica non solo ne Il Gattopardo ma anche in I luoghi della mia prima infanzia e in alcuni Racconti. È Il Gattopardo, comunque  che richiama costantemente il tempo – eros intrecciandolo quasi sempre al tempo – morte – memoria.

      Il Gattopardo, tuttora, è un romanzo che potrebbe aprire una vasta discussione che riguarderebbe sì una visione su un Risorgimento letterario. Una letteratura, che si confronta con le indicazioni della storia ma che non può e non deve fare a meno di elementi che superano la stessa relazionalità contestuale per appropriarci di quelle lezioni metaforiche che sono vitali nel corpus del romanzo.

      La storia, il tempo – memoria, i personaggi. Su questo itinerario Tomasi di Lampedusa ha costruito il suo menabò letterario. Ciò che alla fine resta non sono le date, ma la visione decadente di una civiltà, il rapporto tra tempo e morte nel viaggio epocale di quella civiltà che si raffigura nel Principe, la bellezza, l’estasi e l’eros di Angelica che assorbe tutte le movenze simboliche che trovano espressività, appunto, nei luoghi letterari del romanzo.

      La poesia della memoria, la poesia dell’eros, la poesia della morte non sono una maschera, ma sono lo specchio dei personaggi che rivivono l’avventura di un destino nella tragedia comprensione degli avvenimenti.

      Tutto diventa, come in quei ricordi dell’infanzia in cui non esiste più, un “senso cronologico” ma tutto è retto da una visione di segni e di simboli attraverso i quali la storia perde le sue tappe. In cambio c’è una “immediatezza di sensazioni”, che traspare non tanto dal racconto dei fatti quanto dalla centralizzazione dei personaggi.

      Forse anche per questo resta nella tradizione della contemporaneità.

 

Pierfranco Bruni
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