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L'ANTROPOLOGIA LETTERARIA DI LUIGI MENEGHELLO A DIECI ANNI DALLA MORTE
07/02/2017, 17:00La cultura popolare trova nella storia dei paesi la favola e la realtà. La letteratura, soprattutto nella desertificazione dei nostri giorni, offre non solo una chiave di lettura ma anche un’esperienza fondamentale per addentrarsi in un mondo sommerso che è dentro la nostra civiltà. Storia o storie di paese. Un paese e il suo linguaggio. Un paese che racconta la storia.
Quella storia che diventa memoria in un immaginario che recita l’avventura di un destino. Tasselli di un mosaico che disegnano il cammino all’interno dei vissuti. Ma un paese segna la sconfitta della solitudine: ci ricorda Cesare Pavese. E nella sconfitta della solitudine ci sono i giorni che viaggiano nel quotidiano e il quotidiano che registra il tempo attraverso i giorni. Raccontare un paese, raccontarlo con l’anima, è raccontare non solo un luogo ma il sentimento dei ricordi che hanno dato vita al respiro e all’aria, ai colori e al vento.
Luigi Meneghello, nato a Malo il 16 febbraio 1922 e morto a Thiene il 26 giugno 2007, ha raccontato il suo paese recitandolo grazie ad una intelaiatura di parole. Parole come lingua. Lingua come linguaggio. Linguaggio come sapienza antica. “In questo paese che si svecchia e si sgretola… le cose di prima avranno più senso, non meno”.
Libera nos a malo. Un romanzo di una vita e per una vita. La prima edizione risale al 1963. e poi successivamente altre edizioni con qualche aggiustamento e ritocchi. Ma la vera vita di questo romanzo sta nel riconsiderare la memoria di un paese che non si è mai perduto. Lo scrittore non recupera soltanto il paese con la sua storia. Ma recupera il paese a sé e lo rende libero dalle pastoie di una retorica. Perché, in fondo, e ritorno su questo tema, il romanzo è un dettato che cammina nel labirinto del tempo e si focalizza al centro di un mondo, nel quale la favola e il sogno sono un viaggio in una nostalgia in cui le metafore si intrecciano con gli aghi della realtà.
C’è una lezione che non demorde tra le pagine. Ed è quella, appunto, di Cesare Pavese. Pavese non è passato indenne nella formazione di Meneghello. Qui ci sono tracce indelebili. Il paese è l’Itaca di una infanzia mai perduta ma trascorsa. E’ l’isola che chiede costantemente di essere ascoltata. Così tra le pagine: “ Che cosa succede col passare degli anni a una generazione organizzata nelle sue compagnie? Alcuni lasciano il paese, altri si assorbono nel lavoro e nelle famiglie, i nuclei perdono consistenza, l’intero senso della cosa si modifica senza che ce ne accorgiamo.
Nel modo come ci andiamo cercando l’un l’altro, si vede ancora quanto erano forti i vincoli di una volta. Poche gioie sono migliori di quella che si prova incontrandosi con gli amici quando si torna chi alla domenica di una volta al mese chi all’estate chi a caso. In fondo si pensa ancora che gli amici siano le persone più piacevoli che abbiamo conosciuto, quelle con cui si starebbe insieme più volentieri; però si sente anche che questo pensiero è quasi solo un’abitudine”. Spaccati, squarci, immagini. Danno il senso di una dimensione del vivere e sentire i luoghi come modelli di vitale appartenenza. Dentro questa appartenenza cresce la memoria di un vissuto che in letteratura si traduce in simboli.
Infatti, Meneghello, forte della lezione già detta, trasferisce il tutto in simboli. Anche il linguaggio è un cifrato di codici che comunicano grazie ad una griglia simbolica. Il paese è una interpretazione di un archetipo che i personaggi si portano dentro. Ciò che resta e ciò che va via è una trama di un lungo percorso che si rivela proprio nell’incontro tra il linguaggio e il tempo. Dunque la nostalgia.
“Abbiamo riso a lungo imbarazzati, e poi siamo andati via. Volta la carta la zefnia”. Con queste parole si chiude il romanzo. Ovvero “volta la carta”. Ma la memoria è sempre un adagio lieve e alla fine, come ha scritto Domenico Porzio riferendosi a questo romanzo, si avverto come se tutto fosse racchiuso in una preghiera, anzi in un “requiem”. Ascoltare questo “requiem” è andare nel profondo delle cose.
Nel profondo di un tempo inesorabile che si (ci) rivela come una “nostalgia gnostica”. Ovvero è “la nostalgia gnostica che assilla l’intera narrazione” (D. Porzio). Certo, Meneghello non ha scritto solo questo romanzo. Voglio, tra gli altri (solo alcuni), qui ricordare: I piccoli maestri del 1964, Fiori italiani del 1976, Il dispatrio del 1993. un filo che lega, che unisce, che incontra i luoghi con l’anima. Non una celebrazione ma battere sulla tastiera dell’essere. Si ritorna sempre all’infanzia e da qui si riparte per allontanarsi ma comunque ancora una volta per intensificare l’orizzonte del distacco e la percezione di non perdere quel paese che è soprattutto l’angolo del cuore che ha bisogno di non smarrirsi. Direi, comunque, nonostante tutto, sempre oltre la cronaca.
“…s’incomincia con un temporale. Siamo arrivati ieri sera, e ci hanno messi a dormire come sempre nella camera grande, che è poi quella dove sono nostro. Coi tuoni e i primi scrosci della pioggia mi sono sentito di nuovo a casa”. E’ l’inizio del romanzo. Un incipit straordinario. Ritornare a casa.
Il paese resta questo ritorno a casa che si metaforizza nella nostra coscienza. Ma anche la nostra coscienza è vissuto. Indelebile e struggente. E dentro questo gioco – forza c’è la poesia che non smette di assentarsi dall’ansia che cattura e dalle emozioni che sprigionano vita.
Un romanzo del ritorno, nel quale la partenza è ancora e sempre un mettersi in viaggio per ritornare. Nella fierezza di avere un paese nell’anima (in questo romanzo dell’appartenenza) i percorsi sono modelli non solo letterari ma anche esistenziali.